di Elia Fiorillo

“A pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca sempre”, lo ripeteva Giulio Andretti che in fatto di conoscenza dei meccanismi sotterranei della “politica politicante” non era secondo a nessuno. Il decreto “mille proroghe” quest’anno giornalisti 1si occupa anche dell’Ordine dei giornalisti. Ritarda di qualche mese la scadenza dell’attuale Consiglio nazionale, e di quelli regionali, in attesa di una riforma che non piace a molti. Non ai “pubblicisti” che vengono letteralmente epurati da organismi che spesso li vedevano in maggioranza: da un eccesso da correggere si passa a un altro di segno opposto.

Era talmente indilazionabile la riforma da legarla a doppia mandata alla legge sull’editoria? O il legame stretto tra la norma sull’editoria, con i relativi “urgenti” stanziamenti, era il pretesto tutto politico per imporre logiche partitiche che con la riorganizzazione della categoria c’entrano come cavolo a merenda? È proprio strano che quando Sindacato e Ordine qualche anno fa si trovavano d’accordo sulle proposte di modifica della legge 3 febbraio 1963, n. 69, “Ordinamento della professione di giornalista”, i partiti furono indifferenti. Oggi, invece, alcuni di questi sono solerti, fino al punto da far sorgere sospetti su tanta voglia di cambiamento.

In questa vicenda non è secondaria la conflittualità tra i vertici dell’Ordine e quelli della Federazione nazionale della stampa, il sindacato “unico e unitario” dei giornalisti. Tensioni accumulatesi negli anni per visioni diverse della professione del giornalista, e in alcuni casi per interessi di parte (leggi partiti), sono scoppiate letteralmente con l’introduzione del cosiddetto “equo compenso”. Che di equo ha solo il nome. Di fatto un giornalista è pagato pochi euro ad articolo e il suo impegno professionale, paragonato ad altri mestieri anche umilissimi, in fatto di retribuzioni diventa ridicolo.
Enzo Iacopino, presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, ricorda spesso la precarietà di tanti “colleghi” trattati da schiavi perché, tra l’altro, la battaglia dell’equo compenso si è trasformata in una beffa: pochi miseri euro ad articolo. Senza contare il rischio, per chi scrive, di avere querele con la richiesta di risarcimenti impossibili, o intimidazioni peggiori. Non è un caso che il presidente dell’Ordine insista per la nascita dell’albo degli editori, strumento importante da istituire per capire i veri interessi che ci sono in gioco. Insomma, bisogna evitare che il diritto all’informazione, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, si trasformi nel “diritto”, per l’editore, di fare pubblicità ai suoi affari, colpendo – a mezzo stampa – gl’interessi contrapposti ai suoi. L’albo degli editori potrebbe a buon diritto essere inserito nella legge sull’editoria proprio per quella voglia di trasparenza, a parole, da tutti invocata.
Le ragioni alla base del dissenso alla modifica dell’attuale assetto dell’Ordine dei giornalisti sono diverse. Secondo i critici della riforma non viene garantita neanche al minimo la rappresentanza di alcune Regioni come il Friuli, le Marche e la Basilicata, ma anche la Valle d’Aosta, la Calabria, il Trentino, l’Abruzzo, l’Umbria, il Molise. Ma potrebbero rischiare di non essere rappresentate anche il Piemonte, il Veneto, l’Emilia, la Sardegna. C’è poi l’altra considerazione che parte dal fatto che il mestiere del giornalista è cambiato. Migliaia di colleghi sono formalmente “pubblicisti”, ma vivono di giornalismo. Altro che tempo parziale. Restano pubblicisti perché non viene data loro l’opportunità del praticantato, o preferiscono questa collocazione per non correre rischi con le testate. Per converso i pubblicisti, con l’attuale impostazione della riforma dell’Ordine, diventerebbero marginali e tutto verrebbe controllato da quanti oggi concorrono a tenerli in una sorta di ghetto.

Sempre più nella società moderna la formazione dell’opinione pubblica, nel bene e nel male, è affidata ai mezzi di comunicazione di massa. Dai giornali, alla televisione, alle agenzie di stampa, al web. Da come vengono proposti ed interpretati dai media i fatti, le notizie, così la pubblica opinione si “modella”, formandosi. Ben si può comprendere allora come sia vitale per la democrazia che l’informazione fornita dai media non sia artefatta da interessi di vario genere: politici, economici, di potere tout court.

Da queste considerazioni si deve partire per il necessario ed opportuno cambiamento degli strumenti di organizzazione e rappresentanza dei giornalisti. Certo, l’Ordine va modificato, ma anche il Sindacato “unico ed unitario” dei giornalisti andrebbe ripensato. Il pluralismo della rappresentanza, con la nascita di nuove forme di aggregazione sindacale aderenti a Cgil, Cisl e Uil – ma non solo – servirebbe a smuovere una palude dove oramai gli editori sono i veri padroni incontrastati.

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