Ragazzi, poco piu’ che bambini, processati e incarcerati come adulti, accusati di “scafismo” al
momento dello sbarco sulle coste italiane. Mentre i veri
trafficanti restano in Libia. I numeri non ci sono, le storie
si’ . “I barchini che attraversano il Mediterraneo centrale non
hanno alcun equipaggio. Gli scafisti e i trafficanti di esseri
umani non sono a bordo: restano in Libia”, dice all’ANSA
Stefania Gasparri, volontaria del centro Astalli di Catania.
L’associazione e’ attiva dal 1999 e “vede ogni anno accedere ai
propri servizi uomini e donne in fuga da guerre e persecuzioni,
spesso vittime di tortura, che arrivano dopo viaggi al limite
della realta’ “. Come quelli di Saidu Bangura, oggi ventiduenne, e
di Joof Ousaineau, nato nel 1999 a Barra, vicino a Banjul,

 

capitale del Gambia.
Saidu ha solo 13 anni quando parte dalla Sierra Leone.
Attraversa il deserto, viene rapito, torturato, ricattato: prima
in Algeria, poi in Libia. Infine arriva a Pozzall: e’ il giorno
prima del suo diciottesimo compleanno. Saidu viene arrestato
come scafista. Anche Joof e’ un ragazzo in fuga, lascia il Gambia
per sfuggire a un padre che lo voleva uccidere, convinto che si
fosse convertito al cristianesimo. Ha 15 anni quando sale su un
barchino fatiscente a Zwara, in Libia. È il piu’ piccolo a bordo
e durante il viaggio ha mal di mare tanto da essere portato in
ospedale appena sbarca in Italia. “Era lui a guidare il
barchino”, testimoniano alcuni passeggeri. Joof non ha ancora
compiuto 16 anni ma secondo la radiografia del polso ne avrebbe
18, quindi passa quasi un anno nel carcere (per adulti)
Pagliarelli di Palermo.
Il collettivo europeo di giornalisti Lost in Europe
(lostineurope.eu), che dal 2018 racconta le storie dei minori
stranieri non accompagnati che arrivano in Europa, ha cercato
insieme all’ANSA di analizzare il fenomeno dei minorenni finiti
in carcere come adulti Accusati in Italia di favoreggiamento
all’immigrazione clandestina. Secondo il report del 2021 “Dal
mare al carcere” dell’ong Alarm Phone e di Arci Porco Rosso
Palermo, realizzato incrociando dati di polizia e notizie di
cronaca dal 2013, in 8 anni “sono almeno 2.500 gli arresti di
migranti accusati di essere scafisti in processi sommari –
spiega all’ANSA Richard Brodie di Arci Porco Rosso -. Un numero
altissimo”. Da 7 anni Joof “ha questo macigno sulla testa”,
racconta la sua avvocata, Cinzia Pecoraro. Con i pochi elementi
a disposizione riesce a trovare il padre di Joof che le manda
l’atto di nascita. “Con quei documenti il giudice lo scarcera e
nella sentenza contesta la prova scientifica che in Italia viene
usata per stabilire l’eta’ : la radiografia del polso”. I
parametri su cui si basa questo esame, spiega Pecoraro, “sono
quelli della popolazione anglosassone degli anni ’50 che mal si
adatta a quella africana del 2020. Non solo: la radiografia ha
un gap di errore fino a due anni”. Oggi Joof vive con un amico a
Partinico, paga l’affitto e non ha alcun aiuto. Fa il pastore di
pecore. Non puo’ cambiare lavoro perche’ non ha il permesso di
soggiorno ma il suo sogno e’ quello di diventare chef.
“La legislazione e’ stata inasprita dopo il naufragio di
Lampedusa del 3 ottobre 2013”, in cui sono morte, a poche miglia
dalla costa, 368 persone, principalmente eritree, con 20
dispersi, ricorda l’avvocata Pecoraro. “Ogni legislazione di
emergenza manifesta enormi criticita’ : in questo caso ha portato
troppo spesso alla condanna di innocenti che venivano segnalati
da altri soggetti come coloro che guidavano il barcone”.
Il carcere minorile Bicocca di Catania dal 2013 inizia a
riempirsi di ragazzi stranieri accusati di favoreggiamento
all’immigrazione a cui veniva applicato (per gli istituti
minorili non accade piu’ dal 2018) l’art. 4 bis dell’ordinamento
penitenziario che vieta la concessione di benefici. “Molti erano
semplici pescatori, per questo sapevano guidare la barca”,
spiega all’ANSA Elvira Iovine del Centro Astalli di Catania.
Secondo la direttrice dell’Ipm, Istituto penitenziario minorile,
Maria Randazzo, sono arrivati in 5 anni almeno 50 ragazzi.
“Arrestare l’ultimo anello della catena, chi – forse – guida la
barca, senza andare a indagare in Libia i veri signori della
tratta, non rappresenta una risposta adeguata di fronte
all’opinione pubblica e all’Europa”, spiega dall’associazione
Border Sicily Paola Ottaviani, avvocata di Saidu. Ora molti dei
processi “partiti in quegli anni si stanno concludendo con
sentenze di innocenza”, dice. Saidu, oggi vive in una comunita’
di suore, fa il pizzaiolo a Modica ed e’ in attesa dell’udienza
per la messa alla prova. La sua avvocata, dopo molti anni, e’
riuscita a far giudicare il suo caso al tribunale dei minori.
Saidu racconta che effettivamente era lui a guidare il barchino.
“Non sapevo fosse un crimine. Che potevo fare? Cercavo solo di
salvarmi la vita”, spiega ricordando che quando era in Libia,
nella ‘connection house’, lui era quello senza soldi ma era
sveglio. “Una notte mi portano assieme a un altro ragazzo in un
porticciolo. Mi dicono: ‘Se riesci ad accendere il motore sei
libero'”. Saidu fa partire la barca, l’altro ragazzo no. Non
viene liberato, ma per una settimana ogni sera lo portano in
spiaggia per insegnargli a guidare la barca. L’ultima volta lo
mettono in un bagagliaio, lo portano al mare e lo fanno salire
su una barca piena di gente. “Se tornate indietro, vi spariamo”,
minacciano. Dopo anni, ancora non riesce a essere tranquillo:
“Non riesco dormire, il mio cervello non fa altro che pensare a
tutto quello che e’ successo”.