Il Ferragosto è ormai passato. Ancora un po’ di giorni eppoi la tregua per le ferie estive sarà un ricordo lontano. Tregua per modo di dire, perché anche a metà agosto c’è chi tra i politici ha parlato di “si” e “no” per la competizione referendaria di novembre. La vera campagna all’ultimo voto comincerà però tra qualche giorno. E c’è da scommetterci, botte da orbi su tutti i fronti. Nel senso che con la scusa referendaria sia a destra, che a sinistra, nonché al centro si faranno i conti che con la riforma della Costituzione hanno poco a che vedere.
Nel Pd baffino D’Alema è tra i promotori di un’assemblea convocata per il 5 settembre per sostenere il “no” alla riforma targata Maria Elena Boschi. Certe iniziative dell’opposizione interna dei dem hanno tutto il sapore dell’annuncio di una rottura insanabile subito dopo il voto. Perché il partito del presidente del Consiglio, nonché segretario del Pd, grande artefice di una riforma costituzionale invocata da sempre da tutti i partiti, proprio non può avere nel suo interno un fronte del “no”. Se dovessero vincere i “no” per Matteo Renzi sarebbe la fine dell’esperienza di presidente del Consiglio, ma soprattutto di segretario del Pd. Ma le accuse agli avversari interni per la perdita subita sarebbero, a dir poco, feroci. E come si più stare nello stesso partito in posizioni totalmente contrapposte? Stesso ragionamento se il “si” dovesse vincere. Insomma, o prima del voto di novembre si riesce a trovare un compromesso onorevole per le due anime dei democratici, oppure è ipotizzabile che dopo il voto “ognuno torni a casa propria”. Per il momento è guerra guerreggiata. Dice Renzi del suo predecessore a palazzo Chigi: “Se D’Alema avesse speso un decimo del tempo che ha messo per attaccare me per ostacolare Berlusconi… Invece lui pesca sempre la carta di attaccare il più vicino: è toccato a Prodi e ora tocca a me”.
Silvio Berlusconi per il momento tace, si gode le vacanze. La mossa che lui spera vincente l’ha fatta prima delle ferie lanciando la candidatura di Stefano Parisi per ricostruire Forza Italia e organizzare un nuovo Centro-destra. Se i risultati referendari dovessero premiare i “no”, ipotizzando qualche “ritorno a casa” di vecchi amici – perché “il potere logora chi non l’ha” – potrebbe pur sempre sperare nella ri-conquista di Palazzo Chigi. E Matteo Salvini? Di problemi interni ne ha ad iosa. Una cosa è voler governare, un’altra è stare all’opposizione anche se in sovraesposizione mediatica. Il trio Bossi, Maroni, Zaia mira alla concretezza del governo sia esso comunale, regionale o nazionale e, quindi, potrebbe addomesticare il tosto ex padano, diventato italiano per convenienza elettorale.
Sul fronte Cinque Stelle niente di nuovo all’orizzonte, se si esclude il ritorno in prima fila del garante Grillo. Il governo di Roma capitale resta centrale nella rincorsa alla leadership nazionale del Movimento. E questo lo sanno bene tutti i componenti del direttorio. Virginia Raggi ha davanti a sé un campo minato con, ovviamente, tutti i partiti contro. Se i “no” dovessero vincere Beppe ed i suoi potrebbero cantare vittoria, chiedendo a gran voce le dimissioni di Renzi e ipotizzando un loro trasloco a Palazzo Chigi. Ma con quali alleati? Berlusconi? Parisi? Salvini? Non sembra proprio possibile, allo stato attuale, un “Governo dei no”.
Un errore Matteo Renzi lo ha ammesso. Quello di aver voluto personalizzare il Referendum. Ma, quando l’ha fatto, il vento in poppa lo sentiva tutto. E, si sa, come diceva Eraclito “Il carattere di un uomo è il suo destino…”. Con il senno del poi, al di là degli aspetti caratteriali, forse certe prese di posizioni se le sarebbe risparmiate. A cominciare dalla rottura del Patto del Nazzareno. Allora non volle mediare con Berlusconi sul candidato presidente della Repubblica. Il braccio di ferro con l’ex Cav. lo vinse lui. Oggi, forse, quel patto, pensando al Referendum di novembre, lo rimpiange. Chissà…
A cura di Elia Fiorillo