E’ finita, finalmente si è conclusa una delle campagne referendarie – ed elettorali – più combattute della storia della Repubblica. Al di là della vittoria del No, che si porterà dietro una sfilza senza fine di polemiche e le dimissioni irrevocabili di Matteo Renzi da presidente del Consiglio, con tutto quello che ne conseguirà, resta il fatto inequivocabile che i toni della competizione hanno spaccato il Paese a metà. E di tutto l’Italia aveva bisogno che non di una così radicata divisione. Si dirà che l’argomento in questione era talmente importante, vitale, che gli accenti non potevano essere diversi.
Il vero problema di queste votazioni è il significato politico che si è voluto dare ad esse. Certo, Renzi ha sbagliato quando legò la sua immagine, con relativa carriera politica, al risultato referendario. E la successiva ammissione dell’errore è servita a poco. Comunque, l’elettore si è trovato a fare i conti con una competizione personale che ha fuorviato il significato referendario, strumentalizzato oltre misura dai partiti di opposizione (interna ed esterna al Pd). Una personalizzazione che ha scatenato una campagna nefasta, fatta d’insulti, tra l’altro, a tutto quello che era “passato”, con immagini negative che rimarranno impresse per anni nel corpo elettorale, sia dei sostenitori del Si che di quelli del No. La voglia di vincere ad ogni costo ha macchiato inesorabilmente questo referendum, facendo passare in secondo piano le vere tematiche che erano in discussione. Con molta probabilità sarebbe andata diversamente se i quesiti referendari avessero puntato non alla globalità della riforma, ma ad un Si o ad un No mirato sui vari argomenti oggetto della modifica costituzionale.
Fulco Lanchester, ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, è stato l’ideologo della campagna referendaria dei Radicali. Teorizzò il principio di “discernimento”: invece di schierarsi per il No o per il Sì “è possibile seguire due strade alternative, o il referendum parziale oppure per parti separate”. Gli faceva eco il segretario radicale Riccardo Magi: “Il referendum non è una guerra santa”. E annunciava il deposito della richiesta di “referendum per parti separate e siamo certi – affermava – che l’Ufficio centrale solleverà il conflitto di attribuzione alla Consulta. Se non lo farà, impugneremo noi alla Corte il decreto di convocazione del referendum”. Non è andata così.
Anche all’interno del Pd c’era qualcuno che sosteneva qualcosa di simile. Per Miguel Gotor: “occorre abbassare la temperatura plebiscitaria che Renzi vuole alzare, altrimenti finiamo nel pieno della deriva berlusconiana. E siccome la Carta è di tutti è incivile imporre un quesito unico”. Preoccupazioni e timori che non hanno sortito alcun effetto. Forse, con il senno del poi, c’è chi sosterrà che sarebbe stato meglio la votazione per parti separate. Non si sarebbe arrivati alla personalizzazione referendaria, né alla bocciatura di tutte le proposte di modifica. Con molta probabilità su alcune questioni avrebbe vinto il Si, su altre il No. Insomma, alla fine né la maggioranza, né l’opposizione avrebbero potuto gridare alla vittoria. Ma si sarebbe evitata una campagna referendaria di spaccatura, senza che alcune problematiche acclarate da tempo ed obsolete presenti nella Carta costituzionale potessero essere rimosse. Un’impostazione per quesiti avrebbe comportato anche un vero approfondimento sulle varie tematiche presenti nella riforma costituzionale. Si sarebbe anche evitata la semplificazione approssimativa e, soprattutto, fuorviante fatta dai troppi slogan generalisti che hanno sintetizzato ai soli fini di potere, sia da parte dei sostenitori del Si che di quelli del No, un evento importante per tutto il Paese. Soprattutto si sarebbe evitato il rischio delle impennate speculative dei mercati e delle borse che diventano il vero pericolo per un’Italia che in fatto di condizioni economiche non può dire di essere in una condizione smagliante.
Passata l’ondata della delusione da una parte e dall’esaltazione per la vittoria ottenuta dall’altra, forse sarà il caso di un’attenta analisi retroattiva su quello che è avvenuto dal momento in cui si è lanciato il referendum. Un esame scrupoloso fatto su tutte le parti in campo in merito alle prese di posizioni, agli opportunismi calcolati, alle generalizzazioni volutamente fuorvianti, alle semplificazioni menzognere. Tutte cose da non ripetere.
E’ andata così stavolta, ma la lezione speriamo che serva a tutti, sia a sinistra, che a destra, che al centro.
di Elia Fiorillo
“