E’ importante “fare la gavetta”, si comprendono tante di quelle cose, stati d’animo compresi, che torneranno più che utili quando si andranno a ricoprire cariche di vertice. Perché per “comandare” in modo adeguato c’è bisogno di grande esperienza, maturata nel corso di un percorso di vita. Eppure, questa condizione basilare per chi scrive, sembra un orpello superfluo per taluni personaggi contemporanei della politica, e non solo. Se è il capo supremo ad investirti, tutto procederà per il meglio. Anche perché è lui e solo lui a dare ordini. Tu puoi ricoprire anche un ruolo di primo piano, ma il governo tuo e del sistema che gestisci sarà opera di chi ti ha investito.
Nella logica testé delineata l’esperienza non conta. Conta la “fedeltà”, che è cosa diversa dalla “lealtà”, al capo. Non è nemmeno importante, o fino ad un certo punto, la preparazione per ricoprire determinati incarichi. Certo, un minimo d’infarinatura la si deve pur avere per stare a quel posto, ma niente di più. Sarà “il principale”, il “capo supremo”, il “boss” che ti ha indicato a farti muovere come nell’opera dei pupi. E non saranno ammessi errori. Nel senso che i comandi, anche se assurdi o surreali, andranno rispettati, pena la destituzione in tronco per il superficiale che non ha eseguito in modo tassativo la direttiva.
Al di là dei comandi da eseguire, ci sono le notizie da riferire su uomini e cose al “supremo”. Informazioni dettagliate, anche le più segrete tra le segrete, sugli avversari. Meglio se sono riferite ai gusti sessuali, alle trasgressioni, a quelle cose che se divulgate faranno scandalo. L’avversario non si combatte più a suon di ragionamenti politici, di fatti storici, di tesi e via proseguendo, ma con il pettegolezzo quanto più triviale possibile.
Tranne eccezioni che si contano sulle dita di una sola mano, il “Comandante” non è poi l’intoccabile che vorrebbe far credere. Proprio per il sistema di potere che è riuscito a mettere in essere con taluni sistemi, ha il terrore che anche a lui possa capitare quello che ha fatto ad altri. E, quindi, sta sempre sul “chi vive”, avendo ben in mente gli aforismi: “Chi di spada ferisce, di spada perisce” e “Chi la fa l’aspetti”. Insomma, un brutto modo di vivere e, ovviamente, di comandare.
Eppoi, nel sistema di potere testé descritto, arriva il tempo dell’”uccisione del padre”. Il momento in cui l’intoccabile viene assassinato dal fedelissimo, fino ad allora, compagno, amico, camerata, fratello, figlio. Nessun “onore delle armi” per il defenestrato, anzi le più basse insinuazioni, i racconti più beceri per distruggerne l’immagine, per esaltarne la nullità. Il meccanismo che guida il nuovo “padrone” è elementare, buttare fango su chi lo designò a ricoprire certi posti di comando. Ciò per attestare che non ci fu nessun favore fattogli a spese di altri. La scelta compiuta era per meriti, per bravura, per capacità di cui l’ex condottiero voleva appropriarsi, voleva utilizzare per la sua gloria eterna.
Si può ben immaginare nel gioco testé descritto la qualità delle decisioni, delle scelte, soprattutto di natura politica. Un disastro.
Ha ricordato Giuseppe De Rita il ragionamento che gli fece Bettino Craxi alla fine del 1978 per spiegargli le sue strategie: “il paese è sfinito dalla continua mediazione democristiana; occorre quindi perseguire un alto tasso di decisionismo; per far questo occorre una verticalizzazione delle decisioni; per tale verticalizzazione occorre una spinta alla personalizzazione del comando; e di conseguenza una forte presenza mediatica”. Teoria che nel corso del tempo ha avuto degenerazioni fino ad arrivare a quelle che abbiamo provato a descrivere. Ma già ai tempi di Craxi fiorirono “i nani e le ballerine” come le descrisse Rino Formica più volte ministro nell’era craxiana.
Cambiare si può, sempre. L’importante è avere idee chiare. Non è vero che tornare al passato è indice di arretramento, di pericolose marce indietro. Come non è vero che la “modernità” è tutto e non può essere portatrice di sbagli o false aspettative. Una delle caratteristiche che i politici, i sindacalisti, comunque chi opera nel sociale dovrebbe avere è il così detto “buon senso”. Ed esso, ad avviso di chi scrive, si forma solo dopo aver fatto tanta esperienza. Insomma, dopo aver fatto veramente la “gavetta”.

di Elia Fiorillo