A cura di Elia Fiorillo
Gli anni passano e… certe consuetudini restano. Nel lontano 1967 nasceva il cosiddetto “manuale Cencelli”. Regole, quasi scientifiche, per la spartizione tra i partiti e le loro “correnti” di ruoli politici e di governo. Alla base c’era l’effettivo peso politico di ciascuna forza.
L’idea della ripartizione su basi non improvvisate o dettate dall’emotività del momento venne ad un funzionario della Democrazia Cristiana, Massimiliano Cencelli. La sua teoria era semplice. “Se abbiamo il 12% come nel Consiglio di amministrazione di una società gli incarichi vengono divisi in base alle azioni possedute”. In altre parole il peso della ripartizione veniva stabilito dal numero delle tessere possedute.
L’attuale classe politica con grande determinazione rinnega ipotesi spartitorie alla Cencelli, eppure niente è cambiato in fatto di nomine, d’incarichi, ecc. dal lontano 1967. L’abbiamo visto quando si è formato il “governo del cambiamento”. Lo vediamo puntualmente ogni volta che c’è da fare delle scelte che comportano assegnazioni di ruoli di responsabilità.
La Rai, la tivù di stato, è stata sempre nei pensieri spartitori dei gruppi dirigenti che si sono susseguiti a Palazzo Chigi. E si capisce l’interesse. “L’informazione è potere” e poterla gestire, indirizzare a favore dei partiti di governo, diventa un importante volano di consenso. Gli stessi partiti che hanno sempre gridato per l’autonomia del “servizio pubblico”, all’atto delle nomine del Consiglio di amministrazione sono stati ben attenti a non lasciarsi sfuggire un “posto al sole”… nel C.d.A..
Ad amministratore delegato della Rai, in quota 5Stelle, è stato chiamato Fabrizio Salini che, tra l’altro, dal 2015 ha diretto La7 come responsabile dei contenuti e dell’aggiornamento multimediale. Marcello Foa, attuale amministratore delegato della società editrice del ‘Corriere del Ticino’ ed ex giornalista del Giornale di Indro Montanelli, è stato designato, in quota Lega, alla presidenza dell’azienda. Ma non è detto che la Commissione di vigilanza Rai, che dovrà ratificare la nomina con una maggioranza dei due terzi, approverà la designazione. Su Foa, al di là delle opposizioni che lo vedono come fumo negli occhi accusandolo, tra l’altro, di essere contro le vaccinazioni obbligatorie, contro il presidente Mattarella, sovranista convinto e via proseguendo, c’è anche il “no” categorico di Silvio Berlusconi. Pare che l’ex Cav. non sia stato consultato dall’alleato Salvini quando ha scelto con Luigino di Maio i vertici Rai. Siccome i voti di Forza Italia sono determinanti in Commissione vigilanza, tranne ripensamenti dell’ultima ora, è sicura la bocciatura di Foa.
Si può già immaginare la querelle che si scatenerà dopo la bocciatura del presidente incaricato. Salvini potrebbe rompere definitivamente con Silvio, tenuto conto delle previsioni elettorali che lo vedono stravincente alle prossime elezioni. Ma probabilmente non lo farà. Non gli conviene essere accusato di aver “scassato” il centrodestra. Rimarrà alleato con Berlusconi e Fratelli d’Italia, più per una questione d’immagine che non di sostanza. Dell’alleanza il maggior azionista, diciamo pure proprietario, è lui e, quindi, non gli conviene rompere. Dovrà sopportare pazientemente l’uomo di Arcore e andare avanti per la sua strada come già sta facendo da tempo. Se poi il presidente di Forza Italia si dovesse alleare con il Partito democratico, allora il discorso cambia. Il traditore andrà punito in tutti i modi possibili. Per ora si continua da una parte a parlare d’unità del centrodestra e dall’altra a lavorare ogni partito per i propri interessi.
Ritornando alla Rai, dopo la bocciatura di Foa Salvini dovrà individuare un uomo a lui vicino che però non dispiaccia a Berlusconi, proprio per non ripetere il copione già visto. Da parte sua l’ex Caimano proverà ad imporre al Capitano leghista un suo nominativo. Così facendo, se dovesse riuscire nell’impresa di avere un suo uomo a viale Mazzini, coronerebbe il sogno di una vita, essere il “padrone” di tutta l’emittenza pubblica e privata del nostro Paese.
Difronte al “governo del cambiamento”, che spesso replica copioni già visti nel passato, la voce dell’opposizione è flebile, quasi inesistente. Eppure, ci sarebbe da incatenarsi a palazzo Chigi in pianta stabile. O le varie anime del P.D. si daranno una regolata, nel senso della costruzione di una vera unità interna, o il rischio sarà duplice. Da una parte le attuali forze di governo proseguiranno senza serie contestazioni il loro percorso di occupazione del “potere”, dall’altra il partito democratico perderà sempre più consensi nell’elettorato.