”La Befana vien di notte / con le scarpe tutte rotte / con le toppe alla sottana: / Viva, viva la Befana!” quella vecchia che vola sopra i tetti a cavallo di una scopa e poi, concludendo, dodici giorni dopo Natale, il ciclo natalizio, scende nelle case attraverso le cappe dei camini, che simbolicamente raffigurano un punto di comunicazione tra la terra e il cielo, per distribuire doni o carbone, quasi a far i conti con l’anno passato, come a trarne una morale. E il suo arrivo coincide con l’arrivo dall’Oriente dei Re Magi con i loro doni alla stalla di Gerusalemme in cui è nato Gesù. Due storie che sono legate. Il nome Befana è del resto derivazione della parola greca Epifania, ovvero apparizione, manifestazione, che nelle sacre scritture indica proprio la rivelazione della doppia natura, umana e divina, del Cristo e fa di quella notte una notte magica. E’ ”La dodicesima notte”, come intitola una sua commedia piena di sortilegi Shakespeare, che a Roma era la più importante, quella davvero popolare e di tradizione, quella dei doni e dello scatenamento liberatorio, degli incontri imprevisti, in tempi in cui l’abete dal nord ancora non era una moda e a Babbo Natale al di là dell’oceano
nessuno ci aveva ancora pensato.
Una volta c’erano le trombette di latta e di cartone,
stridule, petulanti e laceranti, che davano un accento orgiastico
e un’atmosfera allucinata al gran mercato della notte della
Befana, come annotava Silvio d’Amico in apertura del suo
romanzo-memoria ”Le finestre di Piazza Navona”, quelle
attraverso le quali i ragazzi che lì abitavano seguivano a inizio
Novecento ciò che accadeva tra banchetti e fontane della piazza
storicamente preposta a quella magica festa. Poi vennero la gomma
e la plastica e invece delle trombette ci fu l’era dei
manganelli, più violenta e rissosa, più fisica nel prender di
mira e ”inseguire popolane o signore, fanciulle o spose,
matrone o vecchiette, col risultato di stordirle, finché non
chiedevano pietà; quando non succedevano battibecchi, o peggio”,
come scriveva sempre D’Amico, giornalista e critico teatrale,
fondatore dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica che porta il
suo nome.
L’origine della Befana va probabilmente connessa a tradizioni
agrarie pagane relative all’anno trascorso, ormai pronto per
rinascere come anno nuovo. Anticamente nella dodicesima notte
dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la rinascita
della natura, e gli antichi romani credevano che in queste dodici
notti, figure femminili volassero sui campi appena seminati per
propiziare i raccolti futuri, in collegamento con la dea Strenia,
simbolo appunto del nuovo anno, portatrice di doni augurali e
oggetti per i bambini durante le festività dei Saturnalia che si
svolgevano a fine dicembre. E’ da lei che deriva il nostro
termine strenna e l’abitudine allo scambio di doni.
Festa oramai generale, ma con appunto un’identità storica
romana (era il giorno dei doni, non il Natale ancora non
commercializzato, e in parte resiste, come Santa Lucia lo era nei
paesi nordici o i Morti lo erano in Sicilia). Nel Lazio a
dicembre si cantava: ”La Befana, in questo mese / è ppartita dal
paese, / s’è ccomprata ‘na bbella chioma, / s’è n’è annata verso
Roma”. Il 5 e il 6 sera tutti quindi si andava e si va a Piazza
Navona, ma prima, prima che i bersaglieri irrompessero a Porta
Pia, quella festa si teneva davanti a sant’Eustachio, piazzetta
poi divenuta evidentemente troppo piccola, così che proprio nel
1870 banchi e bancarelle vennero trasferiti davanti alla chiesa
del Bernini e attorno alla fontana dei fiumi del Borromini. Quel
giorno, a un certo punto, ci si recava anche nella vicina
Sant’Andrea della Valle, la chiesa resa celebre da Puccini con la
storia di Tosca, dove nella cappella di San Gaetano Thiene si
chiudevano le celebrazioni natalizie col cosiddetto ”Sermone
delle Nazioni”.
All’insegna del detto ”L’Epifania tutte le feste porta via”
si chiudevano allora innanzitutto tanti i banchetti con sugheri,
muschi e casette per il presepe (non c’erano certo tutti quelli
per sparare oggi purtroppo numerosi in Piazza Navona) e poi
passato il 6 gennaio anche quelli di dolci e regalini da mettere
nella calza. Certo bisognava essere stati ‘bboni, come ci ricorda
il Belli nel sonetto ”La strillata della mamma”, che minaccia
il figlio che non le dà ascolto urlandogli: ”Bbasta,
sciariparlamo a sta bbefana: / lo vederai che llettera je
scrivo!”. E in molti paesi italiani e europei la tradizione
prevedeva di finire bruciando le vestigia dell’anno appena
finito, l’anno vecchio rappresentato appunto da una vecchia
malmessa cui si dava fuoco in piazza, festeggiando il passaggio