È innegabile che il virus abbia dominato tutti gli aspetti del vivere, trasformando completamente la vita sia lavorativa sia sociale di milioni di persone. Durante i mesi di lockdown e restrizioni, nel dibattito pubblico, si è parlato molto ad esempio dell’impatto della didattica a distanza (la ormai familiare DAD) e delle limitazioni alla socialità nelle sue più svariate forme. Eppure, l’interruzione del percorso scolastico ha inaspettatamente contribuito a renderne evidente l’indispensabilità nella vita di bambini e ragazzi, così come l’importante funzione sociale. Non altrettanta attenzione è stata dedicata, invece, al mondo dell’università, che pure ha subìto problemi molto simili a quelli affrontati dalla scuola. Gli studenti universitari, secondo il pensiero comune, sono già adulti, perciò autonomi; di conseguenza saranno stati in grado di adattarsi senza problemi alla didattica a distanza. Purtroppo, con questa giustificazione, si è in molti casi trascurato di indagare le conseguenze, a breve e a lungo termine, di misure che in poco tempo hanno sconvolto la quotidianità della comunità accademica.
Gli studenti universitari andrebbero considerati come “gli invisibili dell’era Covid”: è davvero paradossale che mentre si esalta l’ennesimo prodigio della tecnologia che ha consentito lo svolgimento delle lezioni online da casa, non ci si chieda piuttosto come si senta uno studente, oppure un professore, dietro uno schermo. Nel mezzo di una pandemia che ha costretto quasi tutti a mettere in discussione priorità e obiettivi, e chiesto a qualcuno di allentare la presa, c’è chi ha deciso di dedicare i mesi di lockdown obbligato allo studio matto e appassionato, intanto però non ci siamo resi conto di chi ancora piange per i propri cari, ha smarrito la strada, ha fatto a pugni con sé stesso o ha gettato la spugna. Tutto questo è riconducibile ad una serie di fattori come mancanza di motivazione, solitudine, isolamento; ed è solo la punta dell’iceberg. In profondità sono nascosti aspetti ben più gravi e complessi che accomunano tanti ragazzi: disturbi psichici, ansia e depressione rappresentano molti degli effetti collaterali dello stress da competizione, che ogni giorno li schiaccia insieme al peso di un futuro incerto.
Forse non tutti sanno che esiste una pericolosa narrazione, secondo cui l’uomo moderno vuole raggiungere sempre il massimo risultato, eccellere a tutti i costi e investire tutte le energie nella realizzazione di sé. È una narrazione che si insinua pericolosamente in numerosi ambiti della vita, da quello lavorativo a quello personale, ma che ultimamente ritroviamo sempre più spesso nel racconto di studenti che “battono ogni record” e “superano tutti”. Certamente la frustrazione degli universitari non è rivolta ai propri coetanei, che al massimo sono da ammirare e apprezzare, ma al sottotesto che si vuole creare attorno: “I giovani non si impegnano. Ecco perché non si laureano in tempo”. L’errore non sta nel non elogiare i successi, ma nel suggerire l’università e lo studio come l’unica strada verso l’eccellenza, perché rischia di creare per i giovani falsi miti e soprattutto falsi obiettivi, portando così ad un’eccessiva severità nei confronti di sé stessi, e quindi a stati di malessere con esiti, spesso, tragici. In realtà, per alcuni la laurea non rappresenta il trampolino di lancio verso una brillante carriera, anzi si trasforma in una tappa irraggiungibile o addirittura una gabbia che imprigiona fino a togliere il fiato. Vergogna, sensazione di fallimento, paura di deludere genitori e amici; ebbene sì, c’è un po’ di tutto questo dietro la lunga scia di suicidi che vedono protagonisti tanti giovani. Numeri che, durante i mesi dell’epidemia, stanno crescendo in maniera preoccupante. Le motivazioni per le quali un giovane arriva a compiere questo gesto possono essere molteplici: aver scelto una facoltà sbagliata lontana dalle inclinazioni personali pur di conformarsi alle aspettative dei genitori, la credenza sociale che una laurea sia necessaria e determini una superiorità intellettuale, l’ansia di doversi laureare secondo i tempi prestabiliti, l’ossessione di dover prendere 110 con lode affinché quel pezzo di carta valga di più, e via dicendo.
Al giorno d’oggi, in un mondo così non c’è più spazio per chi rimane “indietro”, chi sceglie di investire le proprie risorse in altro, chi si smarrisce o semplicemente ha bisogno di più tempo. In quest’ottica il percorso universitario è vissuto come una vera e propria gara, un’affannosa corsa ad ostacoli verso il lavoro, dove lo spirito competitivo spinge mente e corpo oltre i propri limiti. Nessuno sente la voce degli studenti indignati, arrabbiati, sconfortati, che prediligono un nuovo tipo di università, che includa e non escluda, che sia lo specchio di una generazione non più dedita al successo obbligato e alla competizione, ma di una società che rispetti i sentimenti e le fragilità di tutti. Siamo umani, ma ancora non si riesce a comprenderlo. Abbiamo dei limiti. Ognuno ha i suoi tempi: per imparare, per studiare, per rispettate le proprie esigenze. Allora, bisogna liberare i ragazzi una volta per tutte dall’ossessione della prestazione perfetta, della competizione infinita, della vittoria ad ogni costo. Insomma, liberi di essere sé stessi e di sbagliare, che non è altro il più bel dono che possono ricevere. Il gesto d’amore che può letteralmente salvarne la vita.
Acura di Jolanda Andretti