Il mondo dell’informazione sta vivendo una crisi epocale dove soprattutto è in discussione la sua credibilità. Di fatto sta diventando uno strumento che Montanelli definiva di “asservimento” e di “fazione”.

di Elia Fiorillo

Fa fatica il docente del corso di aggiornamento “obbligatorio” per giornalisti a trattare la tematica della deontologia deont 1professionale. Non perché non sia preparato o restio a rispondere alle domande sempre più incalzanti dei giornalisti-allievi. Il problema è un altro: la complessità di una materia “senza fine”, che non è trattabile nell’arco di una sola ora, ma neanche in più giornate di studio. È la solita minestra all’italiana, dove dentro c’è tutto, ma anche il suo contrario.

Quando si prova a regolamentare tutte le casistiche possibili di eventi e fatti che il giornalista può incontrare nella sua attività professionale, il rischio che qualcosa salti, non venga contemperato, è grande. E l’esperienza insegna che più si va nel dettaglio spinto, più è facile che quelle regole possano essere aggirate o annullate in sede di procedimenti disciplinari dai mille cavilli che le stesse norme vanno a ingenerare.

Oggi si contano diverse “Carte” deontologiche: da quella di Treviso sull’informazione relativa ai minori, a quella che definisce “i doveri dell’informazione economica”, alla Carta di Roma che tratta le problematiche attinenti alla “dignità dello straniero”, a quella dei doveri e della deontologia sanitaria. Ma non è finita. C’è poi il Codice di autoregolamentazione per i processi in TV, quello riguardante i “media e lo sport”, le norme che definiscono il confine tra informazione e pubblicità. Eppoi, ancora, le Carte di alcuni organi d’informazione, da quella del Corriere della Sera, al “Patto sui diritti e i doveri dei giornalisti di Repubblica”, al “codice di autodisciplina del Sole 24 Ore” e in fine – certi di aver dimenticato qualche altro Codice -, la Carta dei doveri dei giornalisti degli uffici stampa. C’è anche da notare che l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, visto che le regole sui processi in TV non vengono assolutamente prese in considerazione seguendo, per fare audience, il dettato delle tre S – sangue, soldi, sesso – ha predisposto un C.d. dal titolo: la TV del dolore. Nell’elencare le tante norme deontologiche che molto spesso non sono conosciute dalla maggior parte degli addetti ai lavori, e nemmeno dai direttori dei media anche importanti, viene in mente la massima di Cicerone: “il massimo del diritto, il massimo dell’ingiustizia”.

Meglio, allora, poche regole di base a cui il giornalista deve attenersi pena la “cacciata”, senza se e senza ma, dalla categoria. Ovviamente, quando c’è nel suo comportamento comprovata malafede. Radiazione come massima pena e pubblicità dei procedimenti disciplinari proprio per evitare che l’opinione pubblica pensi che la “casta” si limiti ad abbaiare, ma poi non morderà mai i suoi simili. Cosa che purtroppo troppo spesso è avvenuta. Un’auspicabile modifica delle regole a base degli Ordini professionali dovrebbe prevedere collegi disciplinari formati anche da “giudici” non provenienti dalla categoria. Un cinquanta per cento interni e gli altri, ad esempio nel caso dei giornalisti, individuati con criteri non clientelari, tra i lettori. Il sorteggio potrebbe essere un metodo democratico di selezione. Comunque, un primo passo verso la semplificazione lo dovrebbe fare prossimamente l’Ordine Nazionale del Giornalisti che ha iscritto all’Ordine del giorno la semplificazione e l’accoppiamento delle tante norme deontologiche. Speriamo che il sogno si avveri.

Scriveva Indro Montanelli in “Il dover essere giornalista oggi” nel 1989: “La deontologia professionale sta racchiusa in gran parte, se non per intero, in questa semplice parola: onestà. È una parola che non evita gli errori….Ma evita le distorsioni maliziose quando non addirittura malvagie, le furbe strumentalizzazioni, gli asservimenti e le discipline di fazione o di clan di partito”.

Il mondo dell’informazione sta vivendo una crisi epocale dove soprattutto è in discussione la sua credibilità. Di fatto sta diventando uno strumento che Montanelli definiva di “asservimento” e di “fazione”. Questa è la morte della libera informazione ma, soprattutto, della democrazia. Se a ciò s’aggiunge la precarietà di tanti giornalisti i cui “pezzi” sono pagati pochi, ma veramente pochi euro, il quadro è chiaro. Altro che deontologia…senza fine. Qui c’è la fine dell’informazione libera.