Primi arrivarono qui i malgasci, poi indiani, arabi, cinesi e infine noi, i cercatori di sole fuori stagione. Ma nell’isola di Mauritius (una sola, che tutti chiamano erroneamente al plurale, chissà perché) i residenti che contano davvero sono due pesci: il Cheilodipterus, detto Marie Jean, e il Monotaxis, detto Capitaine Grosse. Approfittando di nuove rotte dirette dall’Italia, siamo atterrati nell’Oceano Indiano dell’armonia
La barriera corallina circonda l’isola di Mauritius come mura medievali farebbero con un’antica città. Guardando l’orizzonte si distingue il confine, il qui e l’oltre, un baluardo dopo il quale non s’azzardano le onde e la calma crea la laguna, regalando la sensazione di un luogo sicuro, una cupola di vetro che protegge dallo spazio ignoto dell’Oceano Indiano. «È l’unica raccomandazione che diamo ai bambini», dice Pierre, una guida locale, manovrando una barchetta diretta al largo: «Oltre la linea blu, mai».
Poi, certo, ci sono gli agguerriti abitanti della barriera. Che facendo snorkeling a pochi metri dalla spiaggia del Dinarobin Beachcomber Golf Hotel & Spa, cinque stelle lusso punteggiato di ville, piscine private e suite sul giardino tropicale, sembrano voler difendere il territorio dagli intrusi. C’è il Cheilodipterus (i mauriziani lo chiamano Marie Jean) che ti fissa come farebbe un rissoso avventore di pub, finché almeno non dai un colpo di pinna e te ne vai. Poi il Monotaxis, detto Capitaine Grosse, che simula degli assalti e se s’incaponisce arriva a sganciarti una musata sulla maschera, giusto per accertarsi che il messaggio sia arrivato chiaro. Con i coralli che scorrono appena sotto la pancia in questo mare bassissimo e dall’acqua piacevolmente fresca, per un’isola tropicale. Il vento è dolce e il caldo mai oppressivo, con temperature che difficilmente superano i 33 gradi, nell’estate mauriziana che inizia a novembre e abbraccia tutto marzo. «È una destinazione in cui crediamo fortemente», dice Nicola Bonacchi, vice president leisure sales di Alitalia, che dopo trentacinque anni di assenza ha aperto un nuovo volo diretto da Roma, «in particolar modo per il pubblico dei croceristi, che possono atterrare la mattina e avere tutto il tempo di imbarcarsi».
L’Île Maurice è un luogo per molti versi unico, abitato da una popolazione pacifica e perfettamente amalgamata, che nonostante la lunga dominazione inglese ha scelto di parlare francese quasi per attitudine naturale, in una stratificazione di popoli che dal Settecento a oggi ha condotto qui gli schiavi dal Madagascar, gli indiani, gli arabi e più recentemente i cinesi.
La Chinatown della capitale Port Louis si annuncia con un grande arco di pietra e un dragone lungo quindici metri realizzato con bottiglie di plastica riciclate (il ristorante migliore della zona, famoso per i noodles all’uovo, è Canton, in rue Emmanuel Anquetil 15). A un passo, c’è la moschea di Jummah, bianca e verde, con le fontane per le abluzioni sistemate sotto un padiglione di vetro che pare una serra per le orchidee. Le leggi per il rispetto del Masjid («luogo di fede») sono impresse all’ingresso: «Parlare di cose mondane distrugge i fedeli come il fuoco consuma il legno», riporta la prima. E poi: «Ridere nel Masjid introduce oscurità eterna nella tomba», recita un’altra. Ma in realtà tutti chiacchierano amabilmente prima di inchinarsi ad Allah. Ci sono addirittura dei motorini parcheggiati sotto il portico, carichi di mango rosa e spezie acquistate al vicino Central Market. Lo stesso clima rilassato che si ritrova al Ganga Talao, un lago vulcanico sacro agli indù che lo credono sgorgato dalle acque del Gange, con le gocce cadute dalle mani stesse di Shiva.
«Qui non abbiamo una storia vera e propria, ma abbiamo le leggende», dice Olivier, un’altra guida, durante un’escursione verso la cima di Le Morne, il monte che incornicia la spiaggia del Dinarobin. Si narra che decine di schiavi si fossero rifugiati quassù in fuga dalle piantagioni, così isolati per mesi da non ricevere la notizia dell’avvenuta abolizione della schiavitù, bandita dagli inglesi nel 1833. «Vedendo salire dei militari pensarono a una retata, e si gettarono nel vuoto», racconta la guida durante una sosta di fronte al monumento eretto ai piedi della montagna, patrimonio Unesco dal 2008. E ancora, la leggenda di Paul e Virginie, che per coronare il loro sogno d’amore nonostante l’avversità delle famiglie si rifugiarono nella foresta di Chamarel, vivendo soltanto dell’acqua che sgorgava dalle palme. Nel teatro del loro sfortunato sogno (Virginie, imbarcata verso Parigi, morì in un naufragio) c’è ancora l’arbre des voyageurs che li ricorda, una palma gialla e verde che sembra una tiara o una corona, amatissima dai mauriziani. Poi, a un passo, i cento metri di balzo della Cascade de Chamarel. E poco distante ancora la Terra dei sette colori, una conformazione di dune fossili create dalla cenere vulcanica, in grado di dipingere un paesaggio che pare una distesa di gusci d’uovo colorati, dal beige all’ocra, fino al viola.
Perché se è vero che le immersioni a largo della costa di Flic-en- Flac sono indimenticabili, tra le grotte e gli archi di pietra di un fondale architettonico ribattezzato La Cathédrale, e se un’escursione alla Île aux Aigrettes per ammirare i 20 esemplari di testuggine gigante di Aldabra può valere il fastidio delle decine di turisti intenti ad attraccare, è nell’entroterra che Mauritius sa regalare cartoline inedite: tra gli ebani secolari del Black River Gorges National Park vivono 4 mila volpi volanti, uccelli rarissimi come il piccione rosa e il parrocchetto di Mauritius. Oltre ai cervi importati dai coloni europei, che a vederli nella bruma tropicale sembrano apparizioni da sogno. «E poi la cucina creola, influenzata dalle tante culture», dice Lorenzo Buti, chef presso il ristorante del Trou aux Biches Beachcomber Golf Resort & Spa. Sposato a una mauriziana, racconta che sulle tavole delle famiglie si trovano il biryani arabo così come i noodles asiatici, la rougaille creola (un sugo di pomodoro, zenzero e coriandolo a cui aggiungere pesce fresco) o la chole bhature indiana. «Per non parlare delle aragoste, dal color marrone scuro, tra le migliori al mondo», dice servendo un perfetto curry verde ai frutti di mare. Per chi volesse uscire dal circuito dei resort, il ristorante creolo migliore dell’isola è Chez Tante Athalie, a Grand Baie, con la sua collezione di auto d’epoca a brillare in giardino. Creature rare, ancora una volta. In questo eden dove l’unico peccato possibile sarebbe vivere soltanto il mare e dimenticarsi di tutto il resto.

COME ARRIVARE
Buona notizia per i fan di Mauritius, e anche per chi non c’è ancora stato: con il volo inaugurale dello scorso 26 ottobre Alitalia ha aperto l’unico collegamento di linea tra l’Italia e Mauritius (partenza ore 21.15 da Roma Fiumicino mercoledì, venerdì e domenica e arrivo sull’isola la mattina successiva alle 10.35 ora locale). La novità favorisce non solo i 35 mila turisti italiani che ogni anno scelgono Mauritius, ma anche i viaggiatori europei che potranno fare scalo su Roma al posto di triangolare su capitali più settentrionali. A bordo, le nuove divise disegnate da Alberta Ferretti e il menu curato con Gambero Rosso e, come sugli altri voli di lungo raggio Alitalia, le classi Economy, Economy Plus e Magnifica. Quest’ultima offre l’accesso immediato ai banchi check-in, varchi di sicurezza dedicati e l’ingresso alla lounge Casa Alitalia. Il servizio è luxury: pranzo e cena sono serviti con un servizio «Dine Anytime» nell’orario più gradito, i sedili di pelle firmati Poltrona Frau, le porcellane Richard Ginori e le trousse di cortesia Ferragamo.