I giuochi sono fatti. Le liste elettorali una realtà. I giorni febbrili in cui i “capi” cercavano un nome, un volto significativo da inserire in “lista” per attirare consensi – al partito s’intende ma soprattutto a loro stessi – sono alle spalle. Ora bisogna fare campagna elettorale con tutti i mezzi possibili per vincere, vincere, vincere!
C’è chi pensa alle elezioni Europee del 2014 sperando che il miracolo di allora si ripeta. Certo ci fantastica il segretario del Pd Matteo Renzi che in quella tornata elettorale fece “Bingo”, sfiorando il 41% dei consensi. Con il risultato di allora riscatterebbe la tanto criticata legge elettorale, il Rosatellum, e ritornerebbe a Palazzo Chigi.
Anche Matteo Salvini pensa e spera nell’esito di quelle elezioni. Allora la Lega realizzò un balzo in avanti del 6,2 per cento. Un salto in alto così metterebbe finalmente – per lui – fuori gioco l’ex Cavaliere e lo costringerebbe a meditare sul ritiro dalla scena politica. Sarebbe lui il “Dux” del centro-destra che indubbiamente, a suo avviso, una volta a capo del governo riuscirebbe a raddrizzare l’Italia. Fino all’ultimo non si è pronunciato per il ritorno in Parlamento dell’Umberto, fondatore della Lega. Non candidarlo poteva consentire a qualcuno – Berlusconi per primo – di gettare a mare scialuppe di salvataggio. Poi Salvini si è convinto che era troppo rischioso lasciare a piedi il Senatur Bossi, meglio metterlo in lista con la speranza di un flop.
Sulle Europee del 2014 non la pensano allo stesso modo Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio. Entrambi fanno gli scongiuri rimuginando i risultati dell’anno da dimenticare. Tonfo di Forza Italia al 16,8% e il MoVimento si ferma a poco più del 21%. Altri tempi. Sono passati da quelle elezioni solo quattro anni, ma tutto è cambiato.
Il criterio adottato un po’ da tutte le forze politiche per scegliere i candidati, oltre a caratteristiche personali attrattive per l’elettorato, è stato quello della “fedeltà”. Non alle idee base su cui si fonda il partito o il movimento, ma a chi lo rappresenta, a chi è al vertice. Così si spiegano le notti insonni dei leader a leggere sequele di candidature e mettere la crocetta del “sì” su quelle di loro personale gradimento, con incavolature plateali degli esclusi e dei “capi corrente”. E la rappresentatività, l’impegno sul territorio, nel sociale per il “bene comune”? Se questi elementi ci sono, ben vengano, ma prima di tutto non “lealtà”, ma “fedeltà” totale al segretario, presidente, o padrone pro-tempore che sia della forza politica. Così si eviteranno, secondo alcuni, i tanti cambi di casacca avvenuti dall’inizio della legislatura, più di 560 tra Camera e Senato, anche dopo che Mattarella aveva sciolto le Camere. E pensare che i costituenti, con l’articolo 67, volevano proprio evitare che i parlamentari fossero tra l’altro sotto pressione dei capi partito: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Il ragionamento che allora fecero i costituenti si basava tra l’altro sulla parola “lealtà” al partito di provenienza degli eletti ma soprattutto verso la Nazione. Insomma, l’eletto doveva svolgere il suo ruolo avendo ben in mente le idee forza per cui era stato eletto, ma tutto finalizzato al bene supremo del Paese, senza alcun vincolo di sorta.
Un tempo il possibile candidato guardava in primis alla sua realtà territoriale. Era là il terreno di coltura della propria candidatura. Era impegnato nel sociale, aveva dei meriti di diverso tipo verso la comunità locale. Per questo veniva scelto dai vertici dei partiti. Le “preferenze” erano importanti per il successo, anche se a volte diventavano strumenti di clientelismo.
Le forze politiche avevano sul territorio tante sedi ed attivisti che con capillarità diffondevano il “verbo”, le posizioni politiche, la visione della società. I tesserati, al di là dei voti, erano le basi solide su cui contare per vincere, non solo le elezioni, ma il confronto sulla “gestione della città”, cioè sulla politica. Altri tempi? Se si punta tutto sui messaggi mediatici, sul fascino del capo, si riesce pure a vincere, ma basta un nonnulla per far cadere il castello d’immagine. La storia politica di Antonio Di Pietro ne è un esempio. La “mediaticità” che esalta oltre misura ma poi, con una semplice ben fatta intervista, tutto fa crollare.
di Elia Fiorillo