A cura di Elia Fiorillo
Ci sono dei libri che ti è capitato di comprare per caso. Ti ha colpito il titolo, o la fama dell’autore, o il tema che tratta, o mille altre cose. C’è il rischio che dopo le prime pagine sfogliate, come a volte succede, il testo verrà riposto in libreria in attesa di tempi migliori per la lettura. Tempi che con molta probabilità non arriveranno mai. Ci sono anche però dei testi che ti appassionano a tal punto che ti aprono nuovi orizzonti, spingendoti ad approfondimenti sulle tematiche trattate.
Di per sé la mafia è un tema ostico. Uno si ferma a leggere svogliatamente sui giornali certe nefandezze compiute dalla “criminalità organizzata” – leggi mafia, ‘ndrangheta, camorra -, provando un senso di fastidio. Altri mondi, per fortuna lontani dal tuo. Certo, lo Stato si deve impegnare di più per sconfiggere quelle forme di delinquenza definite anche “anti Stato”. Più mezzi a disposizione delle forze dell’ordine, più impegno da parte della Magistratura e via proseguendo. Insomma, lo Stato deve fare meglio la sua parte per abbattere la criminalità così detta “organizzata”. E noi? Il problema non ce lo poniamo. E che c’entriamo noi?
C’è poi qualche presidente di Regione, o sindaco, che difronte a fatti di chiara matrice mafiosa va ripetendo che nella sua realtà territoriale talune forme di delinquenza non esistono. Balle propagandistiche secondo loro che, ovviamente, non fanno altro che rafforzare sotterraneamente proprio ciò che è ritenuto “inesistente”. Giovanni Falcone aveva ben capito che il fenomeno mafioso “non era una questione a carattere locale, una specie di sottocultura del Mezzogiorno d’Italia”.
Un libro che va letto e riletto per comprendere i fenomeni mafiosi è “Storie di sangue, amici e fantasmi” di Pietro Grasso. Narrazioni di vite parallele del presidente del Senato con gli amici giudici, eroi loro malgrado, Falcone e Borsellino. Ma anche di tanti personaggi non noti, uccisi solo perché facevano il loro dovere di cittadini. Solo perché praticavano una frase di John Fitzgerald Kennedy, ripetuta tante volte da Giovanni Falcone: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana”. Bisogna anche riuscire a smascherare quelli che vogliono apparire servitori integerrimi dello Stato, ma sono semplici profittatori senza scrupoli. Loro, con l’ipocrisia e gli intrallazzi milionari, diventano un terreno di coltura di tutte le forme delinquenziali.
Ma che cos’è la mafia? “E’ un’associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato”. L’esplicitazione è di Tommasi di Lampedusa definita da Leonardo Sciascia: “la più completa definizione che si può dare della mafia”.
Di stragi mafiose se ne contano tante. Nel 1947 la festa del primo maggio a Portella della Ginestra fu funestata dall’assassinio di dodici manifestanti e dal ferimento di trenta. Il capo dei banditi era Salvatore Giuliano. I mandanti latifondisti e mafiosi organizzarono la strage in risposta alla vittoria del Blocco del popolo, costituito da socialisti, comunisti e indipendenti, alle elezioni dell’Assemblea regionale. Da agraria la mafia negli anni sessanta e settanta si trasforma in edilizia e degli appalti. E’ il tempo del “sacco di Palermo”. Dagli anni ottanta ad oggi non si contano più le carneficine. Tra l’81 e l’83 i Corleonesi eliminano sistematicamente i loro avversari, i morti sono più di mille. In quel periodo il capo assoluto di Cosa nostra diventa Totò Riina, detto û curtu per la sua bassa statura, che negli anni ’92 e ’93 apre l’attacco frontale allo Stato. L’eccidio mafioso conta tanti onesti galantuomini e fieri servitori dello Stato: Falcone, Borsellino, don Pino Puglisi, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio La Torre, Rosario Di Salvo, Danilo Dolci, Peppino Impastato e tanti, tanti altri.
La mafia non è imbattibile, anzi. Ma per vincere, come dice Piero Grasso, c’è bisogno di “una classe dirigente credibile e trasparente ma anche – continua il presidente del Senato -, lo dico con dolore, di un’antimafia che sappia guardare al proprio interno e abbandonare il sensazionalismo, il protagonismo, il preteso primato di ogni attore, la corsa al finanziamento pubblico e privato”. E come non dargli ragione?!