Un servizio de Le Iene di qualche giorno fa ha riportato alla luce il caso della diffusione di un “gioco” (che di gioco non ha nulla) nato e diffusosi in Russia un anno fa circa, che porta al suicidio il “giocatore” che ne prende parte. La Blue Whale, letteralmente Balena Blu, consiste nell’intraprendere un percorso della durata di cinquanta giorni, in cui ogni giorno si affronta una sfida diversa. Le sfide sono tutte riconducibili ad atti di autolesionismo di diverso tipo. L’ultima sfida, il cinquantesimo giorno, consiste nel gettarsi dalla struttura più alta della propria città suicidandosi. Il nome Balena Blu non è casuale, questi mammiferi infatti quando sentono di essere alla fine della propria vita, si arenano volontariamente, di fatto suicidandosi.
La lista completa delle 50 sfide è stata rivelata dagli investigatori ed ora è purtroppo facilmente reperibile in rete. Volontariamente decido di non riportarla, e a mio avviso sarebbe dovuta essere adottata da tutti i mass media questa scelta, per evitare che qualcuno possa anche solo lontanamente pensare di intraprenderla o di diffonderla trovando terreno più fertile in qualche amico o contatto social. Si perché i social hanno svolto un ruolo chiave nella diffusione di questa follia, che in Russia ha portato circa 150 ragazzi di età compresa tra i 10 e i 17 anni a completare tutte le sfide, compresa l’ultima, e cioè il suicidio. Su VKontakte (il Facebook russo) dei “curatori”, nascosti dietro contatti falsi, adescavano ragazzini normali e a quelli che accettavano di “giocare” inviavano quotidianamente le sfide previste. La normalità dei ragazzini che decidono di accettare e di fatto di sottoporsi a tali torture e infine di suicidarsi ci lascia ancora più sconvolti. Sarebbe più facile da accettare per noi pensare che chi consapevolmente ha compiuto quotidiani atti di auto sofferenza fino a suicidarsi per completare un “gioco” fosse affetto da gravi forme di depressione, o da qualche grave malattia mentale. Invece non è cosi. La Blue Whale è strutturata in maniera molto specifica e minuziosa; ideata infatti secondo gli investigatori da (tra gli altri) alcuni dottori in psicologia e psichiatria, è composta da una serie di regole e sfide che permettono il controllo parziale della persona, creandogli uno stato di profondo malessere che, infine, porterà a vedere il suicidio come una liberazione. La durata di 50 giorni non è casuale, la manipolazione della mente infatti richiede un periodo medio lungo per risultare efficace; anche la deprivazione del sonno richiesta in diverse sfide è molto specifica, così infatti è più facile rendere malleabile la mente, soprattutto se quella di un adolescente; o ancora l’isolamento sociale previsto in alcuni giorni di silenzio totale crea sensazioni di solitudine che rendono più debole il “giocatore”. Una regola di fondamentale importanza, viene detto dai “curatori”, è quella di comportarsi con chi ci circonda in maniera del tutto normale, nascondendo il fatto che si stia partecipando al “gioco”. E’ facile intuire il motivo di tale regola, genitori o amici cercherebbero, infatti, di aiutare chi si sta facendo del male e sta andando incontro al suicidio.
Le reazioni a questo servizio sono state diverse sul web. Per di più orrore, compassione, stupore, paura ma, incredibilmente, di fronte la morte di bambini e adolescenti, non mancano gli stronzi che parlano di “selezione naturale”. E’ chiaro che provare a capire non rientri nelle priorità di questi ultimi lobotomizzati, tuttavia credo sia necessario provare a contestualizzare tutto questo. E’ difficile capirlo, perché in Europa bene o male la tua vita da adolescente di 14 anni è simile se non uguale ovunque; in America già cambia e dipende dallo stato in cui sei nato; in Asia magari a 10 stai già lavorando in fabbrica; in Africa forse sei già morto per una malattia o per fame; e infine anche in Russia la vita è diversa da come siamo abituati a conoscerla “normale” per un adolescente, spesso è rurale, ci sono periodi dell’anno in cui il freddo e la neve impediscono ai ragazzini di uscire di casa per settimane. Il governo è molto oppressivo, e la parte giovane della popolazione si incontra e più spesso scontra, con una parte più che è ferma al post comunismo che cerca di ostacolare il progresso. Queste e diverse altre condizioni sociali, economiche, geografiche e politiche hanno significato terreno fertile per lo sviluppo da parte di menti malate di questo “gioco”.
Uno di quelli che è considerato gli ideatori della Blue Whale è stato arrestato e ha confessato di aver personalmente spinto al suicidio almeno 15 ragazzini, dichiarando di non sentirsi minimamente in colpa e anzi ritenendo di aver purificato la società.
L’attenzione mediatica è durata poco, e perlopiù è stata di tipo scandalistico. Ci si è concentrati troppo sul ruolo di genitori poco bravi a controllare i propri figli, e troppo poco invece sulla concreta possibilità da parte di sconosciuti di manipolare la mante di un bambino fino a portarlo al suicidio semplicemente adescandolo sul web. Le tecniche utilizzate dai terroristi islamici per reclutare dei kamikaze non sono molto dissimili a queste. E se invece del suicidio l’ultima sfida fosse stata quella di farsi esplodere e di fare una strage? E se ora stessimo raccontando non “solo” il suicidio di 150 ragazzini, ma l’attacco terroristico di ben 150 ragazzi? Magari per iniziare basterebbe introdurre nelle scuole anche solo un’ora settimanale di “educazione ai social”. In Italia da quando è andato in onda il servizio de Le Iene, la polizia ha ricevuto più di 40 segnalazioni, e si indaga su un suicidio sospetto. Non c’è molto tempo da perdere.
Trattare certi argomenti non è facile e bisogna fare bene attenzione al modo in cui li si racconta per evitare di incorrere in quello che è definito “effetto Werther” e cioè il fenomeno per cui la notizia di un suicidio pubblicata dai mezzi di comunicazione di massa provoca nella società una catena di altri suicidi, è per questo che l’OMS dà ai giornalisti delle norme da seguire in questi casi (purtroppo non sempre rispettati). Allo stesso tempo però i mass media possono ottenere la sortita opposta: chiamata “effetto Papageno”, consiste nel dare spazio a storie di persone che erano sul punto di suicidarsi e sono riuscite a trovare delle soluzioni alternative, migliori, ai loro problemi, trasmettendo il messaggio vero e positivo che è sempre così, la vita è un dono e non esistono problemi che non possono essere risolti.
LINEE GUIDA PER IL GIORNALISMO RESPONSABILE:
– Cogliere l’occasione per trasferire al pubblico corrette informazioni sul tema del suicidio
– Evitare un linguaggio sensazionalistico o normalizzante, non presentare il suicidio come un modo ragionevole per risolvere i problemi
– Evitare il posizionamento della notizia in primo piano e la riproposizione immotivata della notizia
– Evitare la descrizione esplicita del metodo di suicidio o tentato suicidio
– Evitare le descrizioni particolareggiate sul luogo dove è avvenuto
– Prestare attenzione all’utilizzo delle parole nel titolo
– Prestare attenzione all’utilizzo di fotografie o riprese video
– Prestare particolare attenzione alle modalità di presentazione di suicidi di personaggi celebri
– Prestare particolare attenzione per le persone in lutto a causa del suicidio di un parente o conoscente
– Fornire informazioni su centri di prevenzione e informazione
A cura di Piergiorgio Petoia