Prof. Gaetano D’Onofrio, direttore sanitario dell’azienda “Antonio Cardarelli”, va in pensione
“Caro direttore Gaetano D’Onofrio, ti salutiamo con un grande GRAZIE!”
È il saluto commosso che l’ospedale Cardarelli ha voluto dedicare al suo direttore sanitario che, dopo 36 anni da medico, vissuti come una missione va in pensione.
Il Prof. Gaetano D’Onofrio è un’eccellenza per la Campania, laureato in medicina con due specializzazioni, una in medicina legale ed una in igiene, dal 1998 svolge diversi incarichi di grande responsabilità, da Direttore Generale, Direttore Sanitario, Direttore Amministrativo.
Prof. Gaetano D’Onofrio, com’è cominciata la sua avventura nel’88?
Nel ’87, dopo anni di chiusura, uscirono i bandi a cui partecipai perché all’epoca bastava essere laureati in medicina e chirurgia ed abilitati per poter partecipare un po’ a tutte le discipline, eccetto la rianimazione e la radiologia.
Ero già specialista in medicina legale, mi iscrissi e partecipai al concorso di direzione sanitaria e in questa stanza il 16 luglio dell’88 sostenni l’orale per il concorso. Sono entrato in Servizio il 16 settembre del 1988.
Durante la sua carriera abbiamo visto tante tecnologie cambiare, cosa è cambiato nella medicina da quando ha iniziato ad oggi? Innanzitutto la cultura, perché la medicina si basava su un flusso unidirezionale, cioè c’era una scoperta o un’invenzione che veniva applicata in cui il dato fondante era quello di “avere una risposta assistenziale “e addirittura c’erano forme di demolizione.
La qualità della vita post-intervento era poco presa in considerazione; con l’evoluzione della medicina, non solo nel campo delle tecnologie, ma anche dei farmaci, abbiamo iniziato ad affrontare il discorso della prevenzione a livello genetico per tumori. Questo vuol dire che la pallottola magica che permette per alcuni tumori che hanno la loro origine in mutazioni geniche hanno il potere di intervenire; hanno determinato il passaggio da una medicina legata ad un percorso unidirezionale ad una medicina che ha un percorso circolare e che si chiama medicina traslazionale perché parte dalla innovazione tecnologica e dalla ricerca, si applica al letto del paziente e ritorna come feedback un’altra volta nel campo della ricerca per le migliorie. Possiamo dire che si è sviluppata quella che è la epistemologia di Popper, dove la cultura dell’errore non è più la distruzione o mettere da parte una teoria, ma invece è il miglioramento della stessa.
Popper la chiama l’errore produttivo e questa visione in termini organizzativi e di sperimentazione ha fatto sì che ci sia una grande evoluzione perché spesso e volentieri individuare un errore era come dire buttare il bambino con l’acqua sporca.
Con la visione Popperiana, che poi è stata metabolizzata appunto tramite questa medicina traslazionale, ci si è resi conto del meccanismo del perfezionamento. Questa è la più grande opportunità culturale perché poi le varie innovazioni e le dico una per tutte l’emergenza Covid ha permesso di fare un salto quantico, non meramente aritmetico, ma quantico nell’ambito della medicina. Il fatto che meno di un anno il mondo abbia elaborato ben tre vaccini funzionanti, quando mediamente in una cinque/ sette anni, ne sta a indicare come grazie alla ricombinazione genica e grazie allo studio delle sequenze geniche stiamo su altra frontiera.
La sua carriera si è svolta interamente nel pubblico. Ci racconti com’è lavorare in un settore pubblico ospedaliero?
Dico sempre che chiunque lavori nel pubblico deve tener conto di quello che una volta era il famoso giuramento nella pubblica amministrazione, che forse oggi pochi ricordano, ma che recitava che si deve lavorare con disciplina e onore. Dal mio punto di vista, il giuramento sono i due cardini etici su cui qualunque attività nel pubblico deve essere disciplinata.
Lo dico con molta onestà, non ho mai apprezzato quelli che si limitano al far trascorrere la giornata, secondo me è accorciarsi la vita. Invece, il ragionamento è che in base al ruolo uno debba ottemperare a quello che è il discorso della disciplina, quindi un discorso di responsabilità e onore, che vuol dire una dignità professionale da applicare perché poi se ciò che si è imparato, se ciò che si mette in campo non evolve non ha una dimensione di miglioramento si corre il rischio di diventare dei routiner e non c’è niente di peggio della routine.
Cosa significa per Lei essere un medico?
Potrei fare il discorso retorico del famoso giuramento di Esculapio, mi permetto di ricordare quella che è la famosa preghiera di Maimonide che è stato il grandissimo medico arabo del 750 dopo Cristo è colui che tradusse i principi neoplatonici dei due grandi filosofi, Avicenna e Averroè, che avevano metabolizzato la cultura ellenistica traducendola poi nell’Islam.
Maimonide nella sua preghiera ha una dimensione religiosa nel rispetto dell’uomo, rispetto al giuramento di Esculapio, in cui fondamentalmente la visione ellenistica era quella del kalòs kai agathòs, il bello e buono. Introduce un altro meccanismo, che è quello che poi un grande sociologo che ha vissuto i campi di sterminio nazisti sopravvissuto, disse che la dimensione dell’uomo del Novecento l’homo patiens, l’uomo che coinvolge ed è coinvolto nella sofferenza perché se manca questa dimensione etica saremmo dei bravissimi tecnici un po’ come il meccanico che bravissimo aggiustare il motore però noi non aggiustiamo motori, noi curiamo persone.
Quando la medicina parla di dimensione olistica molto spesso è un’affermazione dogmatica che poi non si traduce nella realtà, la medicina olistica la presa in carico di tutta la persona quindi non solo della malattia o del malato, ma della persona. Negli anni 70, quindi ormai di quasi cinquant’anni fa, l’evoluzione sociologica vedeva non solo il benessere psicofisico individuale ma anche relazionale. Quindi non c’era più l’estrapolazione dell’individuo rispetto al contesto sociale, anzi si ci si rendeva conto
che l’ospedale è un luogo alieno nel quale essere sradicati: alla propria famiglia, al contesto sociale lavorativo che già di per se stesso è un handicap. Rispetto al l’accoglienza ho trovato in questa azienda, la più grande del mezzogiorno, l’assenza di un servizio di psicologia clinica, pur essendoci un pronto soccorso che è il più grande del mezzogiorno, pur essendoci un oncoematologia, pur essendoci una interruzione volontaria di gravidanza, pur essendoci l’obesità diabetico; con il dottor d’Amore nell’atto aziendale approvato della Regione Campania approvato l’anno scorso abbiamo inserito un servizio di psicologia clinica con sei psicologhe proprio perché riteniamo nella nostra visione umanistica che non possa non esserci questo segmento.
Un aneddoto che ricorda con piacere?
E praticamente questo medico del Cardarelli regalò con la sua liquidazione non solo la ristrutturazione di un segmento di un reparto ma le poltrone e i televisori che all’epoca nel 92 93 erano un’innovazione straordinaria. Per uno di quei misteri dolorosi della pubblica amministrazione. Questo day ospital non veniva mai aperto. Il direttore Bottino, mio direttore sanitario dell’epoca, mi aveva assegnato come responsabile il padiglione Palermo.
Ebbene un sabato ero di turno in direzione sanitaria, con quattro cinque ausiliari e addetti ai rifiuti, aprì il padiglione Palermo dove stava all’epoca questo DH Oncoematologico, raccolsi tutta la roba e aprii il reparto per cui lunedì successivo tutti i pazienti vennero ad essa assistiti all’interno.
Secondo quella che un famoso motto di un grande scrittore italiano, Leo Longanesi, recita, sempre che gli italiani amano le inaugurazioni ma non le manutenzioni. Era giugno, Bassolino aveva appena vinto come sindaco di Napoli e lo venne ad inaugurare. Dopo quattro cinque giorni, stavo in direzione sanitaria ed arriva un infermiere con una un foglio di giornale sottobraccio e mi dice ma lei il dottor D’Onofrio? – si qualifica:
sono Raffaele Canoro; per me nome ignoto. Mi disse: tra cinque giorni vado in pensione, lei ha fatto una cosa molto bella per gli ammalati. Mentre parla srotola il disegno, dice: “glielo regalo perché lei si ricordi sempre qual è il suo lavoro”! dal 98 da quando ho iniziato il mio percorso di direttore sanitario me lo porto appresso
A cura di Vittoria Pappalardo